Incompatibilità tra
diritti di famiglia italiano e tedesco:
ricadute sul processo nostrano per
reati endofamiliari.
Brevissime note
di
Francesco Trapella
(Avvocato a Rovigo – Assegnista di ricerca in
Diritto processuale penale, Università di Ferrara)
La
famiglia è un valore che rientra nell’ordine pubblico europeo: sia il diritto
dell’Unione, sia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo la pongono a
fondamento del tessuto sociale, quale luogo di crescita e di formazione
dell’individuo.
Nel 1993, ad esempio, nel caso Hoffman, la Corte di Strasburgo si è
concentrata sull’idea di educazione, come diritto/dovere dei genitori ad
indirizzare i figli e, al contempo, diritto dei figli ad essere guidati verso
un traguardo di convinzioni etiche, sociali o religiose che permetta loro un
proficuo accesso alla vita associata.
Ancora, e sempre procedendo per
esempi, l’art. 33 della Carta di Nizza protegge espressamente la vita
familiare, facendo seguito alla Risoluzione del Parlamento Europeo del 14 marzo
1984, alla Convenzione dell’Aja del 1996 o alla Decisione del Consiglio
2003/93/CE (19 dicembre 2002) che si occupano di tutelare le relazioni tra
genitori e figli.
Insomma, i diritti europei si
occupano della famiglia, nelle sue molteplici sfaccettature: l’educazione dei
giovani, il ruolo dei genitori (di entrambi: quindi viene esaltato il valore
della bigenitorialità), la posizione – personale e patrimoniale – dei figli,
ecc.
Da questa premessa deriva che tutti
i Paesi che aderiscono ora all’Unione europea, ora alla Convenzione dei diritti
riconoscono e tutelano la famiglia. Se così non fosse, gli ordinamenti
nazionali si porrebbero in contrasto con quelli europei, con successivo
stravolgimento delle regole gerarchiche tra le fonti.
Quanto appena detto, però, non
significa che tutti gli Stati europei prevedano per la famiglia identici
meccanismi di salvaguardia o, più in generale, che regolino allo stesso modo il
rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini.
Esempio di ciò si ha nel confronto
tra gli artt. 30 e 31 della nostra Costituzione e l’art. 6 della Grundgesetz tedesca.
Il lessico del legislatore costituente
nostrano è ricco di verbi che rimandano al campo semantico della protezione: “nei casi di incapacità dei genitori, la
legge provvede a che siano assolti i
loro compiti” (art. 30 Cost.); “la
Repubblica agevola con misure
economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia” (art. 31,
comma 1, Cost.); “protegge l’infanzia, la maternità, la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale
scopo” (art. 31, comma 2, Cost.).
Diversa è la scelta terminologica compiuta
dalla Legge fondamentale tedesca: “il
matrimonio e la famiglia godono della particolare protezione dell’ordinamento statale. La cura e l’educazione dei
figli sono un diritto naturale dei genitori ed un precipuo dovere che loro
incombe. La comunità statale sorveglia
la loro attività” (art. 6, §§1 e 2, Grundgestez);
“Contro
il volere degli aventi il diritto all’educazione, i figli possono essere
separati dalla famiglia solo in base ad una legge, nel caso in cui gli aventi
il diritto dell’educazione vengano meno al loro dovere o nel caso che, per
altri motivi, i figli corrano il rischio di essere trascurati” (art. 6, §3,
Grundgesetz).
Protezione nel senso di agevolazione
della crescita familiare, da un lato; protezione come sorveglianza dello Stato sui
doveri genitoriali, dall’altro.
Tanto basta a rendere legittima, in
Germania, una struttura statale con ampi poteri di ingerenza sulle famiglie,
che partecipa ai giudizi di fronte al tribunale per i minorenni o all’autorità
giudiziaria civile in qualità di parte. Ne deriva – volendo esemplificare – che
in contenziosi del genere, i genitori dinanzi al giudice sono tre: i due
biologici, e l’Amministrazione per la gioventù (in lingua tedesca, Jugendamt).
Il lungo preambolo conduce al tema
in argomento: immaginando, in Italia, un processo penale per reati
endofamiliari a dimensione sovranazionale che coinvolga un nostro cittadino e
uno tedesco, quali sono le ricadute che derivano su di esso dalla diversità dei
due diritti di famiglia? L’esempio tipico è la sottrazione di minore: di due
genitori, uno è italiano e l’altro tedesco; quest’ultimo conduce il figlio in
Germania; si apre il processo in Italia per il reato previsto dall’art. 574-bis
c.p.. A questo punto, ad esempio, la difesa dell’imputato vuole produrre alcune
relazioni dello Jugendamt che
attestano come il minore si sia integrato bene nel contesto tedesco, con ciò
tentando di provare lo stato della necessità: il ragazzino è stato portato
oltralpe perché era quella per lui la migliore soluzione possibile e
l’Amministrazione per la gioventù tedesca lo conferma.
Il giudice italiano deve porsi una
duplice questione in ordine ai documenti che, in un caso del genere, gli
vengono forniti dall’imputato: a)
deve compiere il vaglio previsto dall’art. 190 c.p.p., arricchito, stavolta,
dalla necessità di acclarare se quelle relazioni siano autentiche e, quindi,
quale siano la loro provenienza e il loro contenuto; b) visto che l’art. 190 c.p.p. impone al giudice, tra le altre
cose, di escludere prove vietate dalla legge e il successivo art. 191 c.p.p.
dichiara inutilizzabile la prova illegittima, egli deve chiedersi se i
documenti dello Jugendamt siano o
meno conformi alla legge e ai principi costituzionali nostrani.
Sotto quest’ultimo profilo, quindi,
il giudice italiano dovrà compiere le medesime considerazioni svolte in queste
pagine, apprezzando il divario tra le previsioni costituzionali italiane e il
disposto della legge fondamentale tedesca sulla famiglia.
Altrimenti detto, l’idea di protezione in quanto sorveglianza è estranea
all’ordinamento italiano, così come lo sono i poteri invasivi che
l’Amministrazione per la gioventù tedesca esercita sulle famiglie.
Ecco, quindi, che il giudice
nostrano non può acquisire le relazioni dello Jugendamt: utilizzarle significherebbe, infatti, trarre informazioni
utili al processo da un soggetto che è titolare di poteri sconosciuti al nostro
ordinamento. Le attività svolte dall’Ufficio d’oltralpe sono ignote al diritto
e al processo civili italiani; del pari ignote sono le relazioni che esitano da
quelle attività.
È dal 1973 che la Consulta ha
stabilito che attività compiute in spregio dei diritti inviolabili del
cittadino non possono essere assunte a giustificazione di atti processuali: è
la nota sentenza 34/1973, da cui la dottrina ha mutuato la definizione di prova
incostituzionale. Ed è ad essa che
andrebbe ricondotto il documento redatto dallo Jugendamt, in quanto – si ripete – avulso dal sistema in Italia
vigente per la regolamentazione dei rapporti intrafamiliari.
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