mercoledì 24 novembre 2021
mercoledì 27 ottobre 2021
Genitori discriminati perché italiani - L'Europa di oggi
sabato 3 luglio 2021
Perché Hitler influenza ancora oggi l'educazione dei bambini
Un bestseller e le sue innumerevoli conseguenze
Nel 1934, la
dottoressa Johanna Haarer pubblicò la sua guida Die deutsche Mutter und ihr erstes Kind (La madre tedesca e il suo
primo figlio). Il libro vendette 1,2 milioni di copie e divenne un testo base
per l'educazione, utilizzato anche negli asili, negli istituti e nei corsi di
formazione alla maternità durante il periodo nazista.
Nel suo testo, la Haarer
raccomanda alle madri di fare in modo che i figli crescano sviluppando il minor
attaccamento possibile. Se il bambino piange, bisogna lasciarlo piangere,
evitando a tutti i costi un tenerezza eccessiva.
Gli studiosi
temono che questo abbia provocato in quei bambini dei disturbi
dell'attaccamento. Disturbi che sono stati poi trasmessi di generazione in
generazione.
Perché
Hitler influenza ancora oggi l'educazione dei bambini
Per
avere una generazione di fedeli seguaci, i nazisti imposero alle madri di
ignorare i bisogni dei loro figli. Persino i nipoti soffrono ancora per quelle
relazioni spezzate. Un'analisi di Anne
Kratzer
Vorrebbe amare i
suoi figli, ma non ci riesce fino in fondo. Renate Flens arriva allo studio
della psicoterapeuta Katharina Weiß con una depressione. Ben presto la
psicoterapeuta inizia a sospettare che dietro ai problemi della sua paziente si
nasconda in fondo la frustrazione di non essere capace di permettere alle
persone di avvicinarsi a lei.
Dopo una lunga
ricerca nel passato di Renate Flens, le due donne credono finalmente di aver
trovato la colpevole: la dottoressa Johanna Haarer, che all'epoca del
nazionalsocialismo scriveva manuali spiegando come crescere i bambini per il
Führer. Eppure Renate Flens – nome di fantasia - è nata negli anni '60 - cioè
dopo la guerra. Ma i libri di Haarer erano stati dei bestseller e anche nella
Germania del dopoguerra, copie delle sue opere si potevano trovare in quasi
tutte le case. Investigando sul tema con la terapeuta, Renate Flens ricordò di
aver visto anche dai suoi genitori un libro della Haarer.
Un aspetto
particolarmente perfido della filosofia educativa della Haarer potrebbe anche
essere stato tramandato di generazione in generazione: al fine di renderli
buoni soldati e fedeli seguaci, il regime nazista esortava le madri a ignorare
di proposito i bisogni dei loro bambini che si voleva provassero poche emozioni
e senso dell'attaccamento. Se un'intera generazione è stata sistematicamente educata
a non stringere legami con gli altri altri, cosa può insegnare a figli e
nipoti?
"Analisti e
ricercatori si sono occupati a lungo di questo argomento, che invece è stato
ignorato dal grande pubblico”, afferma Klaus Grossmann, nel suo ultimo studio
all'Università di Regensburg, scritto dopo aver condotto studi sull’attaccamento
madre-bambino già negli anni '70. Nelle sue osservazioni aveva osservato
ripetutamente scene come questa: un bambino sta piangendo, la madre cammina
verso il bambino, ma si ferma poco prima di raggiungerlo. Anche se il suo
bambino sta piangendo a pochi metri di distanza, lei non accenna a prenderlo in
braccio o a confortarlo. "Quando chiedevamo alle madri perché si comportassero
in questo modo, dicevano che era soprattutto per non viziare il bambino".
Tali affermazioni
e modi di dire come "Un indiano non conosce il dolore" si sentono
ripetere spesso ancora oggi. Anche il bestseller Ogni bambino può imparare a dormire di Annette Kast-Zahn e Hartmut
Morgenroth indicano una strada che va nella stessa direzione. Il libro
consiglia di coricare da soli in una stanza i bambini che hanno difficoltà ad
addormentarsi, o a dormire in modo continuativo, di controllarli e parlare con
loro a intervalli sempre più lunghi, ma senza mai prenderli in braccio, anche
se stanno piangendo.
"È meglio
mettere il bambino in una stanza tutta sua, dove poi rimarrà da solo",
scriveva anche Johanna Haarer nel suo manuale del 1934, La madre tedesca e il suo primo figlio. Se il bambino comincia a
piangere o urlare, va ignorato: "Non cominciate a prendere il bambino dal
letto, a tenerlo in braccio, a cullarlo, o a tenerlo in grembo, e tantomeno ad
allattarlo. Il bambino capisce incredibilmente in fretta che ha solo bisogno di
gridare per richiamare un'anima compassionevole e diventare l'oggetto delle sue
cure. Dopo poco esigerà questa attenzione come un diritto e non darà più tregua
fino a quando non sarà di nuovo preso in braccio e cullato. A questo punto sarà
diventato il piccolo ma implacabile tiranno domestico!".
Il bambino come un
tormentatore la cui volontà deve assolutamente essere spezzata - era questo il
modo in cui Johanna Haarer vedeva i bambini. Ancora oggi si percepiscono le
conseguenze di un tale approccio. Alcuni ricercatori, medici e psicologi
ipotizzano che il basso tasso di natalità, i numerosi divorzi, l’alto numero di
persone che vivono sole, i tantissimi casi di burn-out, di depressione e in
genere di malattie mentali potrebbero essere la conseguenza della mancanza di emozioni
e attaccamento.
Rigorosamente considerate,
le ragioni di queste circostanze sociali sono certamente molteplici. Eppure l'influenza
della Haarer può ancora essere rintracciata in alcuni casi clinici, come nel
caso della paziente di Katharina Weiß. "Di solito in queste terapie ci sono
in primo piano temi molto diversi. Eppure dopo un po' emergono tratti che
rimandano chiaramente alla Haarer: disgusto per il proprio corpo, rigide regole
alimentari o incapacità a relazionarsi", afferma la psicoanalista.
Anche lo psichiatra e psicoterapeuta
Hartmut Radebold racconta di un suo paziente con gravi difficoltà di relazione
e di identità. Anche quest’uomo aveva poi trovato a casa un grosso quaderno nel
quale sua madre aveva annotato innumerevoli informazioni sul suo primo anno di
vita: peso, altezza, o frequenza di defecazione - ma non una sola parola sui
sentimenti.
Colmare di affetto il bambino, anche ad opera di terze persone, può essere nocivo e alla lunga renderlo effeminato.
Johanna Haarer in " La madre tedesca e il suo primo figlio"
(manuale per genitori del 1934).
Evitare il contatto fisico
I consigli della
Haarer si presentavano con apparenza moderna e scientifica, ma erano – questo
era in realtà già noto anche all'epoca - sbagliati e persino dannosi. I bambini
hanno bisogno del contatto fisico, mentre la Haarer raccomandava di ridurre al
minimo tale contatto, persino quando si teneva in braccio il bambino. Consigliava
fortemente una postura del tutto innaturale, illustrata anche con immagini: le
madri tengono i loro figli in modo da toccarli il meno possibile, e se li
guardano, non li guardano mai negli occhi.
Un'educazione concepita per ottenere soldati insensibili
Nel 1949 la
psicanalista austro-britannica Anna Freud scoprì che i bambini che mostravano
un buon legame con i propri genitori percepivano la guerra in modo meno grave
rispetto a quelli che non l'avevano. Quindeau, valutando congiuntamente questi
studi, ritenne che i racconti dei bambini della guerra su bombardamenti e espulsioni
fossero in realtà il racconto del disastro delle loro esperienze familiari. Queste
esperienze così dolorose erano diventate indicibili.
Incapaci di provare sentimenti
Questa
interpretazione è comunque difficile da dimostrare. Gli studi randomizzati che
esaminano sperimentalmente l'influenza dei consigli educativi della Haarer non
sono fattibili per ragioni etiche. Ma anche le ricerche che non si occupano
esplicitamente dell'educazione nel Terzo Reich hanno fornito prove preziose, afferma
Grossmann. "Tutti i dati che abbiamo indicano quanto segue: Se si priva un
bambino della reattività sensibile nel primo-secondo anno di vita - come
sosteneva Johanna Haarer - il bambino svilupperà capacità emozionali e reattive
in maniera estremamente limitata”.
Questo studioso
dell'attaccamento indica, tra l'altro, un lungo studio pubblicato nel 2014
sulla rivista Pediatrics da un team guidato dalla psichiatra Mary Margaret
Gleason della Tulane University di New Orleans, Louisiana. Gleason e i suoi
colleghi divisero in due gruppi 136 orfani rumeni, di età compresa tra sei mesi
e quattro anni: un gruppo fu cresciuto in istituto, mentre gli altri furono dati
a famiglie affidatarie. I bambini della regione, cresciuti con i loro genitori
biologici servirono da gruppo di controllo. Furono riscontrati problemi di
linguaggio e attaccamento sia nei bambini rimasti in istituto che in quelli dati
in affido. Vediamo ad esempio questo esperimento con 89 soggetti: un estraneo
entra dalla porta e chiede ai bambini di seguirlo senza dare spiegazioni. Il
3,5% dei bambini del gruppo di controllo lo segue, rispetto al 24,1% dei
bambini in affidamento e ben il 44,9% dei bambini in istituto.
"Questi bambini, che non pensano e non provano
sentimenti, sono ottimi cittadini di una nazione guerriera", dice
Karl-Heinz Brisch, psichiatra e psicoterapeuta presso l'ospedale pediatrico Dr.
von Haunerschen dell'Università Ludwig Maximilian di Monaco. D'altronde anche
nell'antica Sparta i bambini venivano educati con questo obiettivo, afferma.
"Il principio di Johanna Haarer è che non vada data attenzione al bambino
quando esso la richiede. Ma ogni rifiuto significa anche rigetto", spiega
Grossmann. Un neonato dispone solo di gesti e mimica per comunicare. Se non
ottiene nessuna reazione, imparerà che le sue comunicazioni espressive non
hanno nessun valore. I neonati provano inoltre una paura mortale quando sentono
la fame o la solitudine e quando non vengono tranquillizzati da chi li
accudisce. Nel peggiore dei casi tali esperienze possono in seguito provocare un trauma da attaccamento che rende
difficile più tardi nella vita a queste persone formare relazioni con altre
persone.
Suggerimenti educativi della pneumologa
La Haarer, che era
appunto una pneumologa e non aveva una formazione né pedagogica né pediatrica, fu
comunque convintamente sostenuta dai nazionalsocialisti. I consigli contenuti
nel suo libro, La madre tedesca e il suo
primo figlio, furono insegnati nei cosiddetti corsi di formazione alla
maternità del Reich. I corsi avevano lo scopo di insegnare a tutte le donne
tedesche delle regole uniformi per la cura dei bambini. Solo nell'aprile 1943,
almeno tre milioni di donne vi avevano preso parte. Inoltre il suo manuale era
la base dell'educazione impartita in asili e comunità.
Ancora prima di pubblicare la sua “bibbia dell’educazione”, Johanna Haarer aveva già scritto per alcuni giornali sul tema della cura dei bambini. In seguito pubblicò altri libri, tra cui Mutter, erzähl von Adolf Hitler (Madre, racconta di Adolf Hitler), una sorta di favola intrisa di antisemitismo e anticomunismo in forma comprensibile ai bambini, e Unsere kleinen Kinder (I nostri bambini piccoli), un'altra guida per genitori. Dopo il periodo nazista, la donna originaria di Monaco di Baviera, fu internata per un anno e mezzo. Secondo due delle sue figlie, rimase comunque un'entusiasta nazionalsocialista fino alla sua morte sopravvenuta nel 1988. Non solo la sua personale visione educativa sopravvisse al Terzo Reich, ma anche la sua opera principale Die deutsche Mutter und ihr erstes Kind (La madre tedesca e il suo primo figlio), che rimase in circolazione ancora per molto tempo. Dalla pubblicazione alla fine della guerra il libro vendette 690.000 copie, promosse dalla propaganda nazista. Ma anche dopo la guerra, in una versione epurata dal gergo nazista più grossolano, ne vendette altrettante. Nel 1987 il totale delle vendite era di 1,2 milioni di copie.
Di generazione in generazione
Questi numeri
mostrano quanto fascino avesse ancora nel dopoguerra la visione del mondo secondo
la Haarer. Innanzi tutto bisogna chiedersi perché le madri implementarono un
approccio così innaturale.
"Non erano tutte d’accordo", sostiene Hartmut Radebold. Lo
psichiatra, psicoanalista e scrittore, studiò a fondo la generazione dei
bambini di guerra. Egli presume che la guida educativa della Haarer abbia avuto
un'influenza in particolare su due gruppi: sui genitori che si identificavano fortemente
con il regime nazista, e sulle giovani donne che - spesso a causa della prima
guerra mondiale - provenivano da famiglie distrutte e quindi non sapevano cosa
e come fosse una buona relazione. Se inoltre si ritrovavano sole, perché i
mariti stavano combattendo al fronte, erano anche sopraffatte e insicure, e
quindi particolarmente ricettive nei confronti della propaganda educativa della
Haarer.
Inoltre anche prima del 1934 un’educazione estremamente rigorosa era già pratica comune in Prussia.
Grossmann ritiene che solo una cultura con una certa precedente inclinazione verso queste idee di durezza e di imposizioni avrebbe potuto attuare cose del genere. Questo coinciderebbe anche con i risultati degli studi degli anni '70, che indicano, per esempio, che a Bielefeld in quel periodo circa un bambino su due mostrava un comportamento di attaccamento insicuro, mentre a Ratisbona, nella Germania meridionale, che non è mai appartenuta alla sfera di influenza prussiana, nemmeno un bambino su tre.
Per valutare quanto
è sicuro il legame tra madre o padre e bambino, Grossmann e altri ricercatori
usano spesso lo Stranger Situations Test
(experiments on attachment quality) sviluppato
dalla psicologa statunitense Mary Ainsworth. In tale esperimento, una madre
entra in una stanza con il suo bambino e lo mette a sedere con un giocattolo
vicino. Dopo 30 secondi si siede su una sedia e legge una rivista. Dopo non più
di due minuti, suona un segnale per ricordare alla madre di incoraggiare il
bambino a giocare, in caso non lo stia già facendo. A ulteriori intervalli, da
uno a tre minuti, si svolgono poi le seguenti scene: una donna sconosciuta appare
nella stanza e tace, poi le due donne parlano tra loro, la sconosciuta si
occupa del bambino, la madre mette la sua borsetta sulla sedia e lascia la
stanza. Dopo poco la madre torna nella stanza e la sconosciuta se ne va. Poco
dopo se ne va anche la madre, lasciando il bambino da solo. Dopo alcuni minuti
la sconosciuta torna nella stanza e si occupa del bambino, solo dopo arriva la
madre.
Gli studiosi dell'attaccamento
hanno osservato attentamente il comportamento del bambino. Se è brevemente
irritato e piange nella situazione di separazione, ma si calma velocemente, si
considera che abbia un saldo rapporto di attaccamento. Se non si calma - oppure
non reagisce per niente alla scomparsa della mamma - si considera che abbia un
rapporto di attaccamento insicuro. Grossmann ha fatto il test in diversi
contesti culturali. Durante le osservazioni lo studioso ha constatato che in
Germania, diversamente da altri paesi occidentali, un numero particolarmente elevato
di adulti sarebbe positivamente impressionato dal fatto che i bambini non
reagiscano alla scomparsa della mamma o della principale persona di riferimento.
I genitori percepiscono tale comportamento come quello di una personalità
"indipendente".
Come i genitori così i bambini
Tali studi
suggeriscono inoltre che i bambini, una volta divenuti adulti e genitori a loro
volta, trasmettano inevitabilmente questo tipo di relazione dell’attaccamento alla
generazione successiva. In uno degli studi compiuti, Grossmann e colleghi hanno
anche osservato lo stile di attaccamento dei genitori dei bambini osservati,
con l'aiuto di interviste realizzate quattro o cinque anni dopo aver effettuato
lo Stranger Situation Test. Nella
loro valutazione, gli studiosi hanno incluso non solo il contenuto delle
risposte, ma anche le emozioni degli adulti durante l'intervista. Per esempio,
i ricercatori hanno annotato anche tratti dei soggetti come cambiare spesso
argomento, dare solo risposte monosillabiche o generalizzare troppo, lodando i
propri genitori senza descrivere situazioni specifiche. Il risultato della
pubblicazione del 1988 fu che tra i 65 casi di genitori e figli analizzati, il
tipo di relazione di attaccamento dei bambini corrispondeva a quello dei loro
genitori con una frequenza dell’80%. Una meta-analisi pubblicata nel 2016 dal
gruppo di ricercatori guidati da Marije Verhage dell'Università di Amsterdam,
che aveva analizzato i dati di 4.819 persone, confermò l'effetto della
trasmissione del tipo di relazione di attaccamento da una generazione
all’altra.
In che modo
esattamente i genitori trasmettano le esperienze negative della propria infanzia
ai figli è ancora oggetto di varie teorie. Tuttavia è ormai riconosciuto che
anche i fattori biologici possano avere un ruolo importante. Nel 2007, per
esempio, Dahlia Ben-Dat Fisher della Concordia University di Montreal e i suoi
colleghi constatarono che la prole di madri che erano state trascurate durante
la loro infanzia mostrava al mattino livelli regolarmente più bassi dell'ormone
dello stress, il cortisolo. I ricercatori interpretano questo fatto come un
segno di elaborazione anormale dello stress.
Nel 2016, un team
guidato da Tobias Hecker dell'Università di Zurigo confrontò i bambini della
Tanzania che avevano affermato di aver subito molta violenza fisica e
psicologica con quelli che avevano riferito solo un piccolo abuso. Nel primo
gruppo, constatarono non solo una maggiore incidenza di problemi medici, ma
anche una metilazione anomala del gene che codifica la proteina
proopiomelanocortina. Questo è il precursore di tutta una serie di ormoni, tra
cui l'ormone dello stress adrenocorticotropina, che è prodotto nella ghiandola
pituitaria. I modelli di metilazione del DNA alterati possono influenzare
l'attività di un gene - e con ogni probabilità essere trasmessi di generazione
in generazione. Gli studiosi osservarono questo fenomeno in dettaglio negli
esperimenti sugli animali, ma il quadro è meno chiaro rispetto a quanto avvenga
negli esseri umani.
A livello
comportamentale, si può trasmettere solo ciò che si conosce in termini di
esperienza, spiega Grossmann. Per essere sicuri, i genitori possono
consapevolmente confrontarsi con la propria esperienza di attaccamento e
cercare di crescere i propri figli in modo diverso. "Ma nei momenti di
stress, spesso si ricade nei modelli appresi e inconsci", dice Grossmann.
Forse è per questo che Gertrud Haarer, la più giovane delle figlie di Johanna
Haarer, non volle mai avere figli. Criticò pubblicamente sua madre e, dopo una
grave depressione, scrisse un libro sulla vita di sua mamma e sulle sue idee. La
figlia stessa riconosce di essere stata a lungo una persona incapace di
avvicinarsi agli altri e inoltre confessa di non avere memoria della sua
infanzia. "Evidentemente sono stata
talmente traumatizzata da pensare di non essere in grado di crescere dei
bambini", ha spiegato in un'intervista alla Bayerischer Rundfunk.
Questa traduzione è apparsa in tre puntate sul settimanale Il Patto Sociale:
La prima parte si trova qui.
La seconda parte qui.
La terza parte qui.
mercoledì 21 aprile 2021
KINDERBONUS - Importo da dedurre dal pagamento degli alimenti di maggio 2021
Mandi soldi in Germania quale pagamento
alimenti?
Leggi attentamente quanto segue sul KINDERBONUS
A chi invia ogni mese in Germania
l’importo per il mantenimento del figlio, potrebbe infatti essere arrivata una
lettera tipo quella che allego più sotto.
Si tratta della comunicazione relativa al
KINDERBONUS, un importo di 150 euro, che lo stato tedesco pagherà ad ogni
bambino, indipendentemente dal reddito dei genitori ed in aggiunta al noto
“Kindergeld”, nel mese di maggio 2021.
Questi 150 euro, che vengono pagati ad
entrambi i genitori, in realtà finiscono sul conto del genitore che riceve
anche il pagamento degli alimenti dall’altro.
Pertanto, il genitore che paga gli
alimenti è autorizzato, per il mese di maggio
2021, a dedurre 75 euro (cioè la sua metà dei 150 euro che l’altro incassa)
dall’importo degli alimenti che verserà per quel mese!
Per verifica e controllo consiglio di
leggere i due testi seguenti del Ministero delle Finanze tedesco e dell’Agenzia
tedesca per il lavoro
https://www.arbeitsagentur.de/familie-und-kinder/kinderbonus
domenica 28 marzo 2021
Il giudice, la politica e la sottrazione internazionale di minore
La sottrazione minorile nello scenario internazionale
Incontro di martedì 16 marzo
2021
Intervento e considerazioni di Marinella Colombo
IL GIUDICE, LA POLITICA
E LA SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE DI MINORE
Nel ringraziare gli organizzatori del Convegno, desidero esprimere loro la mia stima per l’impegno profuso nel rendere possibile questo evento. La sottrazione internazionale di minori è un problema diffuso e in continuo aumento. Non riguarda solo le poche centinaia di casi riportati dall’Autorità centrale che, anche a detta della stessa vice-ministro Marina Sereni, intervenuta prima di me, sono in effetti solo quelli che gli interessati hanno voluto segnalare all’Autorità centrale, a Roma. La problematica riguarda in realtà migliaia di bambini che perderanno la loro identità, lingua e cultura italiana, rendendo loro la famiglia italiana allargata nient’altro che un gruppo di estranei con i quali non sono più neanche in grado di comunicare.
Da
un punto di vista istituzionale va innanzi tutto evidenziato come, quando si
parla di sottrazioni internazionali di minori, l’azione della nostra Autorità
centrale del Ministero di Giustizia (autorità preposta a questo genere di
problematiche, come già ben spiegato dalla Presidente della Camera Minorile di Brindisi,
l’avv. Simonetta de Carlo) si concentri purtroppo esclusivamente sulle
sottrazioni relative a bambini portati in Italia dall’estero ad opera del
genitore italiano del minore. Per i bambini italiani portati dall’Italia
all’estero si demanda completamente all’autorità straniera omologa. E’ questo
il motivo per il quale la problematica delle sottrazioni internazionali di
minore non ha mai registrato iniziative che abbiano inciso positivamente e risolutivamente,
nonostante i numerosi “vademecum” e le task force tra ministeri sempre
continuamente rinnovate almeno negli ultimi tredici anni. L’uso dei pochi,
eppure esistenti, strumenti di prevenzione e anche di sostegno al connazionale
viene ignorato. Il genitore italiano che chiede aiuto viene troppo spesso
percepito dalle nostre autorità consolari come un elemento fastidioso e di
disturbo.
Questo modo di
procedere del sistema italiano è ormai definito da molti come “auto-razzista”
ed “autolesionista”. Tenterò di spiegare cosa porta a questa amara definizione
dei fatti.
1.
Una fattispecie di sottrazione è il caso del cittadino italiano (non importa se
padre o madre) emigrato all’estero con la convinzione di trovare una sorta di
“eldorado”, sia per cercare lavoro, sia per seguire il/la compagno/a che ama.
Quando l’unione fallisce, scopre di essere completamente privo/a di diritti
anche nei confronti dei figli.
2.
L’altra fattispecie è quella del cittadino italiano (non importa se padre o
madre) che ha avuto un figlio in Italia con un/a cittadino/a straniero/a. Quando
si rende conto che lui/lei vuole andarsene cerca, senza successo, di tutelare
il bambino e quando il bambino è ormai all’estero si ritrova completamente
solo, perseguitato dai tribunali (tra l’altro diventa un bancomat) ad assistere
impotente alla cancellazione del suo ruolo genitoriale.
Le
Autorità italiane ignorano completamente il fatto che, nel caso 1, se un genitore italiano fa rientro in Italia con la prole,
lo fa solo perché ha dovuto sperimentare a sue spese come nei tribunali esteri
il fatto di essere italiano sia una pregiudiziale nella possibilità di ottenere
e continuare ad esercitare i suoi diritti/doveri di genitore. Tornando in
Italia, nel suo paese, crede di poter ritrovare una giustizia equa che sentenzi
in base ai fatti e non ai pregiudizi e che tuteli il diritto alla
bigenitorialità della prole. La risposta italiana (e solo italiana!) è invece sempre la stessa: decreto di rimpatrio immediatamente esecutivo con la forza dopo il
primo grado di giudizio. Mentre cioè ogni cittadino è innocente fino
all’eventuale condanna in terzo grado, i bambini, dopo un procedimento sommario
che si conclude con una sola udienza, vengono prelevati a casa o a scuola con
enorme dispendio di uomini e mezzi, dunque di preziose risorse, per essere
letteralmente impacchettati e rispediti all’estero presso un genitore che, nel
migliore dei casi si adopererà per cancellare la loro parte italiana di
identità e dove il tribunale toglierà al genitore italiano la potestà (oggi
responsabilità genitoriale) anche senza neppure averlo mai incontrato. Queste
sono, secondo le autorità italiane, i casi di sottrazione nei quali esse intervengono,
risolvono in modo rapido e delle quali riferiscono con orgoglio in relazioni e
convegni. In effetti Convenzioni e regolamenti non lasciano molto spazio
d’azione, ma anche quel poco che si può fare (per esempio invocare l’Art. 13b
della Convenzione per negare il rimpatrio) non viene praticamente mai fatto.
L’Associazione Centro Servizi interdisciplinare, con il suo Sportello Jugendamt
(sportello del quale sono responsabile nazionale) e l’avvocata che collabora
con noi, l’avv. Irene Margherita Gonnelli, ha lavorato con i governi
precedenti, preparando proposte concrete e di relativamente semplice attuazione
per modificare questa situazione, sia con provvedimenti legislativi che
amministrativi. Pare sia mancata la volontà di risolvere tale problematica
dovuta, a mio modesto parere, ad una profonda mancanza di dignità in quanto Popolo e Stato italiano.
Relativamente alla ratifica italiana della Convenzione dell’Aja,
inspiegabilmente articolata contro i cittadini e soprattutto i bambini
italiani, rimando al mio libro La
tutela oltre la frontiera.
Bambini bilingue senza voce – Bambini binazionali senza diritti, edito da
Bonfirraro.
Mentre
per un altro esempio, l’assurdo obbligo – soltanto italiano – di chiedere
l’autorizzazione al genitore straniero (spesso il sottrattore) per conseguire
il proprio passaporto di cittadino adulto italiano, rimando alla Petizione
presentata al Parlamento europeo; qui http://jugendamt0.blogspot.com/2019/01/la-petizione-che-riguarda-tutti-i.html
e qui il link per accedere e firmare (è sufficiente iscriversi al sito del
Parlamento e firmare digitalmente):
Nel
caso 2, quello delle sottrazioni di
bambini portati via dall’Italia ad opera del genitore straniero, le autorità
italiane sottolineano come sarebbe doveroso prevenire e leggere una delle
numerosissime ristampe del “vademecum” del Ministero sulla sottrazione. In
effetti prevenire, in quasi tutti gli ambiti, è estremamente saggio. Ma nelle Procure e nei Tribunali italiani il
genitore italiano che tenta di prevenire una sottrazione si sente rispondere
“non è possibile fare processi alle intenzioni”. Dunque non viene messa in
atto praticamente nessuna misura atta a prevenire e, se è la madre ad essere
italiana, si apre la strada all’accusa di essere una madre “malevola” e di
inventarsi accuse per tenere i bambini per sé.
In
mancanza di misure preventive, troppo spesso un genitore si ritrova all’improvviso
con una casa vuota. La prole è ormai all’estero. Il giudice italiano, quello
del luogo di residenza abituale, non ha ora a che fare con un “processo alle
intenzioni”, ma con una sottrazione che si è ormai realizzata.
Potrebbe
ancora salvare la situazione, potrebbe emettere un decreto inaudita altera parte certificante che la residenza abituale del
bambino è in Italia (Art. 15 Conv. Aja). Con tale decreto, il tribunale del
paese nel quale è stato condotto il minore, sarà praticamente costretto a
decretarne il rimpatrio. Il resto del procedimento su affido ed eventuale
trasferimento autorizzato devono aver luogo in Italia.
In
pratica succede invece questo:
l’avvocato, non necessariamente specializzato in casi di famiglia
internazionale (o comunque non a riportare in Italia i bambini – ci sono
avvocati che si vantano di aver mandato all’estero bambini italiani in modo
estremamente veloce!) invece di presentare al giudice tale richiesta, presenta
istanza di separazione. Oppure inizia procedimenti penali contro il genitore
non-italiano, finalizzati a condanna ed estradizione, ignorando che non pochi
Paesi non estradano i loro concittadini. Dunque anche l’eventuale “vittoria”
nei tribunali penali italiani non riporta a casa il figlio. Passano mesi e anni, il bambino –
indipendentemente dall’esito del procedimento di separazione – resta
all’estero. Oppure l’avvocato è al corrente e presenta istanza ex art. 15 della
convenzione. Qui la situazione è ancora più tragica (e purtroppo ben
documentata) perché il giudice del Tribunale per i minorenni si dichiara non competente
e rimanda al tribunale ordinario. Il giudice del tribunale ordinario rimanda
invece a quello per i minorenni. Se poi uno dei due decide di dar seguito
all’istanza, ignora comunque la richiesta di urgenza e di inaudita altera parte (cioè senza notifica alla controparte) e
fissa il termine entro il quale il genitore italiano deve notificare all’estero
al genitore che spesso non sa neppure dove si sia nascosto!!! Con il bambino
ormai all’estero l’azione italiana si risolve con l’invio di qualche mail e
qualche fax all’Autorità centrale omologa estera. Nel 99% dei casi questi
bambini non tornano più. Vengono mantenuti all’estero con soldi italiani. Va
riconosciuto che in questo ambito le Autorità italiane sono molto efficaci e
velocissime: vengono sequestrati in Italia stipendi, case e risparmi a tempo
record e gli importi vengono mandati all’estero.
L’esempio
che rinchiude entrambi le fattispecie di comportamenti dell’Autorità centrale
italiana è quella del papà italiano (colui che ha chiesto poi di intervenire nel
presente dibatto e che darà così ulteriori dettagli) che permette alla moglie,
stabilmente residente in Italia da anni, di andare a partorire nel suo paese. Dopo
il parto, lei rimanda continuamente il rientro e costringe il marito a
inoltrare richiesta di rimpatrio della piccola, ma il giudice italiano,
territorialmente competente per quel nucleo famigliare, glielo nega. L’Italia
dunque preferisce smembrare una famiglia lasciando una cittadina di domani
crescere all’estero senza padre. Quando però dall’estero arriva la richiesta di
integrazione del pagamento degli alimenti (che il padre ha sempre pagato, ma
secondo la controparte non a sufficienza) allora l’Autorità centrale italiana
diventa più che attiva nel perseguire il proprio concittadino, sia nella scelta
delle parole che nei fatti. Tutto ciò è di davvero difficile comprensione e
accettazione.
Se
il Ministero di Giustizia si è dotato di un’Autorità centrale, il Ministero degli
esteri, dunque lo Stato italiano, ha delle rappresentanze consolari negli altri
Paesi. Il loro ruolo di sostegno al cittadino e genitore italiano è
fondamentale. Non solo il Console
ricopre tra l’altro funzioni di giudice tutelare del minore italiano, ma può
evitare, con la sua presenza in udienza, che il genitore italiano venga
denigrato insieme a tutto il suo Paese e che quindi al bambino venga negato in
maniera completa il suo diritto a mantenere rapporti con entrambi i genitori.
Purtroppo la situazione fattuale ci trasmette un’immagine ben diversa di questi
alti funzionari. Spesso il Console si appella ad ogni genere di motivazioni per
non presentarsi in udienza, non informarsi dei procedimenti relativi a minori suoi
concittadini, insomma non sostenere il proprio concittadino.
Come
invece evidenziato anche dalla vice-ministro, il ruolo dei Consoli è
fondamentale, pertanto auspichiamo, anzi chiediamo
formalmente che il Ministero degli Esteri prenda buona nota e dia precisa
indicazione a Consolati ed Ambasciate di seguire e rispettare quanto previsto
dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 29 novembre 2018 ed in particolare
quanto previsto al punto 30 che cito “[Il
Parlamento europeo] ricorda agli Stati membri l'importanza di attuare sistematicamente le disposizioni
della convenzione di Vienna del 1963 e di assicurarsi che le ambasciate e le rappresentanze consolari siano
informate fin dalle prime fasi di tutti i procedimenti di presa in carico dei
minori riguardanti i loro cittadini e abbiano pieno accesso ai relativi documenti; sottolinea l'importanza di una
cooperazione consolare affidabile in
questo settore e suggerisce che alle autorità
consolari sia consentito di partecipare a tutte le fasi del procedimento”
https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2018-0476_IT.pdf?redirect
A
conclusione di questo mio intervento desidero infine sottolineare che la
risoluzione della problematica “sottrazioni internazionali” si risolverà
quando, senza cercare complicate soluzioni anche di difficile attuazione, lo
Stato italiano – le sue cariche, amministrazioni e tutti i suoi apparati –
ritroverà la propria dignità. Solo in condizione di tale ritrovata dignità potrà efficacemente difendere i propri
concittadini, soprattutto quelli di domani, i nostri bambini.
Dott.ssa Marinella Colombo
mercoledì 24 febbraio 2021
La doppia faccia della giustizia familiare
Non sei una buona madre se sei Italiana
La settimana scorsa
abbiamo illustrato come un trasferimento in Germania possa comportare la
perdita dei figli, portando ad esempio il caso concreto di un papà italiano.
Oggi vogliamo illustrare, sempre basandoci su storie vere e ben documentate,
ciò che succede se invece è la mamma del bambino ad essere italiana e il padre è
tedesco. L’inizio della vicenda non ha nulla di particolare, i due si conoscono
in Italia, si innamorano, si sposano, dal loro amore nasce un bambino. Poi lui
la convince a trasferirsi in Germania ed è così che tutta la famiglia si trova
sottoposta alla giurisdizione tedesca. Lei, come la maggior parte delle
persone, ovviamente non sa nulla del sistema familiare di quel paese, inoltre pensa
che tutto ciò non la riguardi, perché loro tre sono una famiglia unita. Quando
però il comportamento del marito cambia e lei scopre con orrore il passato, ed
ora anche il presente nascosto dell’uomo che ha sposato, dovrà scoprire anche
come funziona il sistema familiare tedesco. Il marito era tossicodipendente ed
è ora ricaduto nella dipendenza, ecco il motivo del suo cambiamento. La vita in
comune si fa insostenibile e per tutelare sia se stessa che il bambino, si
separa. Resta in Germania e continua a far frequentare al figlio il padre,
cercando di nascondere al piccolo la triste dipendenza. Si adopera in tutti i
modi affinché il piccolo continui a guardare il padre come il suo eroe,
affinché i legami con la famiglia paterna si mantengano forti, affinché loro
due genitori continuino a dialogare per il bene del bimbo. Lui si dimostra
riconoscente nei confronti della moglie, lodandola spesso per come educa il
bambino e per come ha imparato a gestire la sua vita in un paese straniero.
Sembrerebbe che i due adulti siano riusciti in modo lucido e responsabile a
gestire la nuova situazione e, tra un ricovero in clinica e l’altro, la
famigliola si incontra per far sì che papà e figlio si vedano, ma i due non restano
mai da soli, bensì sempre con almeno un membro della famiglia paterna presso
cui la mamma porta il bambino. Ma quest’uomo, questo padre, mentre da un lato
continua a dire e scrivere alla moglie quanto apprezza il suo operato,
dall’altra la trascina in tribunale, sostenuto da un’avvocatessa decisa a far
passare questa mamma per una, come oggi si dice, “madre malevola”.
Poiché non le si
può oggettivamente rimproverare nulla e per fare in modo che la sua
accondiscendenza vacilli, le si chiede di dar via a degli incontri in cui padre
e bambino restino da soli. Di fronte ai problemi del marito, la donna non se la
sente di avvallare tale modalità e chiede con forza la presenza di una terza
persona che si prenda la responsabilità di quanto potrebbe accadere o meglio,
che impedisca si concretizzino situazioni problematiche. Lei non vuole
assolutamente essere sempre presente, ma chiede che gli incontri si svolgano
con un parente (della famiglia paterna, visto che la sua è in Italia!) o con la
persona che il giudice vorrà designare ed alla quale conferirà la
responsabilità degli incontri. Il padre è unanimemente riconosciuto come
affetto da dipendenza da sostanze e, secondo quanto scrive la sua stessa
avvocata, in maniera irreversibile ed è forse per questo che nessuno vuole
assumersi tale responsabilità. Il giudice non è stato fino ad ora in grado di
nominare nessuno che svolga questo ruolo e le udienze in tribunale continuano.
In quelle aule si procede lentamente ma inesorabilmente al capovolgimento dei
fatti: il problema non è più il padre con dipendenze che entra ed esce dalle
cliniche, ma la madre italiana che impedirebbe il rapporto padre-figlio. La spiegazione
sintetica di quanto accade è una sola: la mamma è italiana e il padre è tedesco
e questa è la giustizia equa e giusta del 2021 in Germania, Europa.
Dott.ssa Marinella Colombo
Fonte: https://www.ilpattosociale.it/rubriche/achtung-binational-babies-la-doppia-faccia-della-giustizia-familiare/
mercoledì 17 febbraio 2021
Missione o massacro? Un trasferimento in Germania può trasformarsi da avanzamento di carriera a incubo per la perdita dei figli
Negli articoli
precedenti di questa rubrica abbiamo ripetutamente evidenziato come i bambini
binazionali con un genitore tedesco ed uno straniero, nel nostro caso italiano,
vengano sempre affidati al genitore tedesco, anche se con tutta evidenza
inidoneo. Se, pur risiedendo in Germania, entrambi i genitori non sono
tedeschi, l’affido andrà a colui che intende rimanere in Germania ed è più
legato a lingua, mentalità e cultura di quel paese. Se nessuno dei due ha i
requisiti necessari, il bambino viene dato, a breve o medio termine, ad una
delle famiglie affidatarie selezionate dallo Jugendamt, l’ormai nota Amministrazione (tedesca) per la gioventù.
Tutte le iniziative vengono rivestite con una buona dose di legalità, poiché
ogni decisione viene presa, come indicato dalla legge, sia tedesca che
internazionale, nel nome del “bene del bambino” (Kindeswohl). Ovviamente nessuna Autorità non tedesca – quelle
italiane purtroppo brillano per la solitudine nella quale lasciano spesso i
propri connazionali - si è mai preoccupata di indagare a fondo e sulla base di
prove ed evidenze, in che cosa consista questo Kindeswohl. Consiste nel permettere alla Germania di impossessarsi
di ogni bambino che abbia risieduto per almeno sei mesi sul suo territorio. Per
quanto incredibile questo possa sembrare, succede anche di peggio. Il
trasferimento che il datore di lavoro propone, o addirittura la missione
all’estero a cui vengono chiamati alcuni militari dello Stato italiano rischia
di trasformarsi, da riconoscimento e gratificazione, nel peggiore incubo della
propria vita. Può succedere - e succede! - che il militare che si trasferisce
con moglie e prole faccia rientro in Italia, dopo 3-4 anni, al termine della
missione, spogliato di ogni diritto sui propri figli e spogliato anche dei
propri averi che ha dovuto lasciare alla ormai ex-moglie che vuole rimanere in
Germania. Le accuse lanciate contro il genitore italiano, in questi casi di
solito il padre, non hanno bisogno di essere provate davanti al giudice tedesco
ed hanno per conseguenza il suo allontanamento dalla casa e dai figli.
L’avvocato in Germania - purtroppo la quasi totalità di quelli residenti in
quel paese con nazionalità italiana o conoscenza della nostra lingua - non solo
non difende efficacemente il proprio cliente, ma arriva a dirgli “Lei tornerà in Italia, sua moglie vuole
restare qui ed è libera di farlo, mentre il bambino ormai si è abituato e non
può essere sradicato, il bambino ormai è tedesco, rimarrà in Germania”.
Inutile precisare che stiamo parlando di bambini interamente italiani o
comunque senza una sola goccia di sangue tedesco. Per descrivere i sentimenti
che affollano l’animo di un genitore che si sente dare una simile spiegazione,
oltretutto dal proprio avvocato, non basterebbe lo spazio di questo articolo.
Se l’atteggiamento delle autorità tedesche è inaccettabile, la reazione
italiana lo è, se possibile, ancora di più: lo Stato Italiano, che il militare
è andato a rappresentare e servire in Germania, non solo non supporta il
proprio concittadino, non solo non previene mettendo in guarda del pericolo chi
ancora non è partito, ma non sostiene chi di questi genitori tenta, purtroppo da
solo, di non perdere quanto gli è più caro nella vita, i propri figli. Non solo
i tribunali tedeschi considerano tedeschi questi bambini italiani, anche i
tribunali italiani, che restano territorialmente competenti per molti aspetti
delle problematiche familiari, trovano però molto più “comodo” delegare quelli
tedeschi persino per quegli aspetti legali che, secondo i regolamenti europei, restano
inequivocabilmente di competenza italiana. Chi si rivolge a Consolati ed
Ambasciata, almeno per informare delle distorsioni e dei soprusi subiti, viene
liquidato con lettere di circostanza nelle quali un elemento ricorre sempre: ha
ragione la parte tedesca, noi qui siamo ospiti, il consolato non può
intervenire nelle vicende giuridiche, ecc…
Ovviamente nessuno
si aspetta né auspica ingerenze della politica nei tribunali. Ma ci si aspetta
che venga fatto quello anche per cui il personale italiano all’estero è
stipendiato: sostenere e restare al fianco del proprio concittadino, chiedere
ed esigere dalle autorità locali informazioni precise e dettagliate, essere
presente alle udienze, far valere il ruolo del Console quale giudice tutelare
del minore, ecc.. Certamente ciò che ci aspettiamo è anche la spiegazione
pubblica ed ufficiale del fatto che nell’ufficio del consolato che si occupa
del sociale e di famiglia vengano assunti come capufficio dei cittadini
tedeschi. Qualcuno potrebbe avere la sgradevole sensazione che non siano
l’aiuto più indicato.
Dott.ssa Marinella Colombo
Fonte: https://www.ilpattosociale.it/rubriche/achtung-binational-babies-missione-o-massacro/